Budrio casa nostra, opera di una vita
Capita di rado che una storia locale riceva nel corso di trent’anni, a distanze abbastanza simili, una dopo l’altra, tre edizioni: la prima risale al 1963, la seconda al ’77, la terza ad oggi. E ogni volta queste edizioni hanno visto crescere, diventare via via più voluminoso il libro: da circa 210 pagine della prima edizione a quasi 500 della seconda, a più di 630 della terza.
Questa continua crescita, queste edizioni che una dopo l’altra si presentano ampliate, aggiornate, ristrutturate nel disegno della impostazione e nell’architettura dell’opera, sono il frutto, il merito della operosità, nel campo della storia locale budriese, di Fedora Servetti Donati: sono dovute al fatto che essa segue con estrema attenzione e assiduità la letteratura di ogni genere sopra lo spazio territoriale di Budrio, e al fatto che essa si è sempre mantenuta al passo con l’evolvere della metodologia storiografica.
(Lucio Gambi, Una esemplare storia locale di Budrio. Presentazione della terza edizione di Budrio casa nostra, a cura del Comune di Budrio, Assessorato alla Cultura, 1994)
Così Lucio Gambi, professore dell’Università di Bologna, che aveva onorato Fedora della propria stima e amicizia, si espresse presentando al Teatro Consorziale di Budrio, il 28 ottobre 1993, la terza edizone di Budrio casa nostra.
Gli studi sistematici su Budrio e la sua storia cominciarono per Fedora nel lontano 1957, quando, aiutando la figlia Lorenza e la sua classe di quinta elementare in una ricerca scolastica sul paese, si rese conto che per chi avesse voluto approfondire lo studio non c’erano testi accessibili a studenti, anche più grandi: bisognava risalire alle Memorie istoriche antiche e moderne di Budrio – terra del contado di Bologna di Domenico Golinelli, stampato nel 1720, o a compendi eruditi di alcuni parroci e articoli di approfondimento di Ferruccio Codicè Pinelli.
Fu questa constatazione che la spinse a tentare la grande avventura della ricerca storica rivolta alla storia locale, con una finalità prevalentemente didattica. Iniziò così un lungo lavoro: dall’analisi dei testi esistenti, al confronto con le fonti primarie, ai documenti ritrovati negli archivi locali – comunali e parrocchiali , nell’archivio di Stato e in quello arcivescovile di Bologna; fino alla raccolta di testimonianze orali per dare voce pure ad una storia delle tradizioni e della mentalità, per “ricreare – come scrisse – l’atmosfera di casa nostra nel passato” e mettere a confronto il passato con il presente.
La prima edizione di Budrio casa nostra: 1963
Cari ragazzi, vi racconterò una bella storia. È la storia di casa nostra.
Vedremo il nostro paese come è adesso e lo confronteremo con quello di tanti anni fa , vedremo le vie, i palazzi, entreremo nelle chiese, visiteremo la pinacoteca, andremo in giro dappertutto fino alle frazioni più lontane.
E quando vi avrò insegnato la strada, continuerete voi, da soli; guarderete, troverete. E conoscerete la gioia delle piccole scoperte…
(Fedora Servetti Donati, Budrio casa nostra, Introduzione, Comune di Budrio, 1963)
Fedora, dopo anni di studio, nel 1963 pubblicò Budrio casa nostra, dedicato “A Lorenza e agli altri ragazzi del mio paese”, pubblicazione a cura del Comune di Budrio. Le intenzioni del libro sono chiaramente espresse nella premessa: “Questo libro è nato per un pubblico di giovani, per loro è stato pensato, seguendo i criteri che l’esperienza didattica e il rinnovato indirizzo della scuola mi hanno suggerito.
Fatti e figure; niente di astratto; notizie semplici, ma accurata indicazione delle fonti anche per indurre ad ulteriore ricerca; aspetti sociali, economici, religiosi, culturali messi in evidenza”. Anche lo stile scelto e il linguaggio rispondono a tali intenzioni, ma c’è pure il desiderio che l’opera possa incuriosire e attirare anche gli adulti.
Il libro ebbe un’immediata diffusione, buone recensioni sulla stampa locale e attirò l’attenzione di istituzioni bolognesi interessate alla storia locale, come il “Comitato per Bologna Storica e Artistica”, La Famèja Bulgnèisa e il Museo del Risorgimento, che contribuirono a far conoscere il libro, sottolineandone l’ampia documentazione, il rigore metodologico e l’importanza di affiancare alle vicende politiche lo studio della vita sociale, religiosa, economica e culturale: la dedica ai ragazzi del suo paese fu considerato “un atto di modestia” della studiosa. Da questo momento cominciò la collaborazione, che durerà tutta la vita, con tali istituzioni e si allargarono anche le sue conoscenze dirette di storici del territorio e i rapporti con l’Università di Bologna.
L’impegno nella ricerca storica diventò costante, accompagnato da un continuo e progressivo approfondimento su cosa debba essere la storia locale e dall’attenzione agli studi, non solo nazionali, che proprio in tali anni iniziarono ad affrontare il tema.
La seconda edizione: 1977
L’edizione di “Budrio casa nostra” del 1977 non fu una seconda edizione – e non poteva esserlo: mantenuto il titolo, mantenuta la copertina, il volume fu completamente rifatto.
(Fedora Servetti Donati, Premessa alla seconda edizione)
Da tempo la prima edizione era esaurita e il libro steso appariva superato; aveva fatto il servizio per cui era nato: dare ai giovani un’idea complessiva della storia del paese, per imparare, conoscendola, ad amare e preservare il patrimonio che avevano ereditato. Ma tanti aspetti erano stati volutamente solo accennati, ed altri, ancora inesplorati, saranno via via messi in evidenza nelle minuziose indagini condotte da Fedora negli anni successivi, che la portarono a raccogliere una documentazione ampia e inedita e ad acquisire una competenza e una padronanza della metodologia storica tale da permetterle di affrontare la complessa stesura di un’opera di largo respiro.
Così nel giugno 1977 venne data alle stampe la seconda edizione di Budrio casa nostra. Fu un’opera nuova, 494 pagine che ricostruivano la storia di Budrio sulla base di una ricca gamma di fonti, criticamente analizzate: dalle cronache antiche, rilette alla luce della nuova documentazione trovata, ai reperti archeologici; dagli estimi fondiari, ai campioni delle strade e alle mappe del territorio, per verificarne le trasformazioni attraverso i secoli; dalle testimonianze offerte dalla toponomastica, raccolte per la prima volta, alle memorie orali criticamente vagliate.
Fra le novità, la risoluzione di un annoso quesito, di cui le antiche fonti avevano dato un’interpretazione, non documentata, che non l’aveva convinta: quella del numero delle porte del Castrum (Castello, borgo fortificato) budriese. Dopo una ricerca d’archivio a tappeto, ritrovò infatti un prezioso documento degli Archivi Vaticani del 1371: una relazione del Cardinale Anglic Grimoard, vicario del Papa in Italia e legato pontificio a Bologna, che descrive il Castrum di Budrio, con due porte, una a sud e una a nord e non con una sola porta a levante, come affermava il Golinelli, seguendo l’errata tradizione dei cronisti precedenti.
Il libro, pubblicato sempre dal Comune di Budrio e donato da Fedora alla comunità budriese ( come tutti gli altri suoi lavori), fu considerato “un testo fondamentale di storiografia locale” non solo da studiosi di storia locale, ma anche da accademici come Gina Fasoli, e Antonio Ivan Pini, docenti di Storia medievale dell’Università di Bologna e a lungo rispettivamente presidente e vicepresidente della Deputazione di Storia patria. Numerose furono le recensioni su riviste specializzate e giornali, in cui si sottolineava anche la capacità dell’autrice di coinvolgere il lettore nell’amore della ricerca del documento e nell’emozione dela sua scoperta.
La terza edizione: 1993
È stato un impegno grande, lavoro gradito e gratificante, anche se, lo confesso, spesso talmente oneroso da temere, a volte, di non riuscire a finirlo.
(Dalla lettera di Fedora alla sindaca, Mara Salsini, in cui annunciava la conclusione del libro, 31 marzo 1993)
Nel luglio del 1990 era arrivata a Fedora la richiesta ufficiale del sindaco e della giunta per una nuova edizione del volume, da tempo esaurito. Già allora, nell’accettare e ringraziare, aveva anticipato: “Il lavoro richiederà tempi non brevi: auguratemi quindi buona salute, poiché gli anni miei sono tanti, anche se ancora non mi prostrano e posso definire la mia una “viridis senectus”, viridis sì, ma sempre senectus, età a rischio”.
Da questo momento il “vecchio” Budrio casa nostra sarà sempre con lei: saranno tre anni dedicati alla riscrittura totale dell’opera, che, alla fine, della edizione del 1977 manterrà solo il titolo. Numerosi quaderni manoscritti con appunti di tutte le revisioni archivistiche documentano l’immane lavoro della nuova edizione, in cui dovevano confluire anche le ricerche proseguite in quei 13 anni, con le scoperte di nuovi documenti e la pubblicazione di molti lavori su argomenti inesplorati della storia di Budrio.
Fedora aveva perfezionato il suo metodo di lavoro, accogliendo le sollecitazioni che le venivano dallo studio, sempre aggiornato, della storiografia contemporanea, con particolare attenzione al vivace dibattito sulla storia locale. Molte quindi le aggiunte: mappe, piante, una più vasta documentazione sul territorio e sulla toponomastica, antica e moderna; il rilievo dato alle trasformazioni demografiche, attraverso anche tabulati statistici, ai nuovi sistemi agrari e ai nuovi assestamenti urbanistici; l’approfondimento della vita intellettuale e artistica del paese, con la novità documentata, ad esempio, di una “bottega di pittori”, i Gotti, che operavano nel Settecento a Budrio.
Una particolare attenzione poi viene data alla ricerca e alla scelta delle fotografie, molto più numerose (circa 400), “usate non come illustrazioni per abbellire il testo, ma come fonte storica di primaria importanza: ogni fotografia è un documento”.
Anche questa edizione di Budrio casa nostra venne accolta con molto favore, in particolare dall’ambiente universitario, come dimostrano le presentazioni pubbliche di due docenti illustri dell’Alma Mater bolognese: Lucio Gambi al Teatro Consorziale di Budrio, il 28 ottobre 1993, e Francesca Bocchi a Bologna, l’11 novembre 1993, nella prestigiosa Sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio. Da loro vennero messi in rilievo, fra i vari aspetti innovativi del libro, lo stile chiarissimo e molto gradevole, derivato dalla lunga esperienza didattica dell’autrice e soprattutto la modernità metodologica della “architettura” del lavoro: partire dal presente e, andando a ritroso, spiegare come quella realtà si è formata. E fu sottolineato come la presentazione del libro anche alla biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna fosse un evento molto significativo: “il segno – scrisse Lucio Gambi – che la città, signora del contado, considera oggi come parte integrale della propria realtà metropolitana anche i centri che una volta le erano subalterni.
È il segno che questi centri con la loro storia locale hanno saputo dimostrare una loro personalità. Ma quell’evento ha pure un altro significato: è il riconoscimento della fervida dedizione di Fedora Servetti Donati alla storia locale e alle ragioni che la sostengono; è un riconoscimento in modo particolare dell’alta qualità e del valore intrinseco di questo volume”.
Ci sono due modi per fare storia locale: il primo è una interpretazione della storia locale che si limita a rievocare i fatti e gli oggetti, a volte in modo decisamente acritico, senza svolgere un adeguato vaglio delle fonti. Un tipo di storia per cui gli eventi esterni alla località di cui si parla sono quasi esclusi e non li si pone in relazione con gli eventi interni.
C’è poi un altro tipo di storia locale, quella che apre le porte alle metodologie storiografiche più affinate, per cui la storia locale è intesa come riflesso specifico, su di una determinata località o comunità, di una storia di portata più vasta, una storia che trascende i localismi e che in ogni modo li condiziona.
Una storia che non si limita a fatti elitari, e studia non solo le classi dirigenti della società ma per intero il ventaglio delle sue componenti strutturali. Una storia che si apre oggi a temi che sono stati fino ad anni recenti poco coltivati: la demografia, la storia degli insediamenti, quella che si chiama cultura materiale, l’antropologia sociale, in modo particolare i rapporti con l’ambiente.
Una storia che deve anche studiare i riflessi e le caratterizzazioni locali di eventi o di fenomeni di portata più vasta (regionali, nazionali, ecc.). E queste sono cose che richiedono nell’autore una notevole apertura di visuale ad ambiti storici più complessi, e anche la capacità di rapportare gli eventi e i fenomeni studiati a scale diverse. La via scelta da Fedora Servetti Donati è questa“.
(Lucio Gambi, Una esemplare storia locale di Budrio, Presentazione della terza edizione di Budrio casa nostra, a cura del Comune di Budrio, Assessorato alla Cultura, 1994)
Budrio nelle voci dei poeti: passato remoto / passato prossimo / presente
Nel primo capitolo di Budrio casa nostra, terza edizione, 1993, in cui Fedora Servetti Donati inizia la storia di Budrio partendo dalla realtà contemporanea, c’è un’altra novità, inusuale in un testo storico: il paragrafo finale non ci parla di storia, ma di poesia, di poesie dedicate a Budrio. Per tale singolarità, molto in linea con la personalità di Fedora, ci sembra interessante riportarne qui di seguito una buona parte.
Un umanista bolognese, Anton Maria Visdomini, neli ultimi decenni del Quattrocento, in eleganti distici latini definisce l’unicazione di Budrio, loda la fertilità del suolo, ricco d’uva e di grano, e la colta intelligenza degli abitanti, attraverso simboli mitologici: Bacco, Cerere, Pallade Atena:
Est locus antiquo Butrium qui nomine dictus
Milia Felsina distat ab urbe decem;
Terra ferax Bacchi, Cereris quoque, Pallas et illud
Non dedignata est excoluisse solum.
Vi è un luogo chiamato Budrio/ che dista dieci migliadalla città di Felsina;/ Terra fertile di vino (Bacco) e pure di grano (Cerere) ed anche Pallade (la scienza, l’arte)/ non disdegnò di coltivare quel terreno.
(Antonii Mariae Visdomini, Miscella (Carmina), Bononiae, 1482)
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A distanza di tre secoli, un’altra memoria poetica, nitida come un’incisione dell’epoca, ci descrive Budrio con un’armoniosa ottava:
E’ Budrio un buon Castel del Bolognese,
Distante a Nord quarantacinque gradi,
Ben fabbricato è il piccolo Paese,
Ma pur vi sono gli abitanti radi.
Mostra un bel campanile e quattro chiese,
E il suo caffè, dove si gioca ai dadi;
Ha la Piazza, il Mercato e lo Spedale,
Un mercante da panni e uno speziale.
La strofa appare in un divertente poemetto eroicomico, intitolato “Giornata villereccia”, opera di Clemente Bondi, di Mezzani Superiore (Parma). Per commissione di un amico bolognese di cui era ospite, scrisse il poemetto che narra una festosa scampagnata a Budrio di un gruppo di studenti, convittori di un signorile collegio bolognese, che raggiunsero il paese in groppa ad asinelli, per una pantagruelica mangiata in un’osteria locale. Fu pubblicato nel 1773.
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Veniamo al passato prossimo, primo Novecento: il budriese Arturo Lodi, zirudellaro occasionale, innamorato del suo paese che gli sembra più bello di qualsiasi città, ne esalta la serena bellezza in una notte lunare con una delicata canzoncina:
Budri ed nôt
Budri ed nôt, a lûs ed luna
l’è d’na blazza strampalè…
Int al mèz cum int ‘na cuna
Filupanti ai dà un’ucè.
Méral, tòrr, palâz dla Cmuna
in stil gòtich restaurè:
col sòu cà sotta la luna
l’è piò bela d’na zitè.
Cîs antighi, campanéll,
strè spaziòusi e ban tgnò drì:
che silànzi! ans sent che i grell
ch’i fân sàmpar cri cri cri…
Budri ed nôt… Só pr’al canèl
l’è un spetaqual di piò bî
e che luna, e quanti strèl…
e cm al canta al rà di usì!
Budri l’è, a lûs ed luna,
d’una blazza strampalè…
int al mèz cum int ‘na cuna
Filupanti ai dà un’ucè.
(Budrio di notte, alla luce della luna,/ è di una bellezza straordinaria…Nel mezzo come in una culla/ Filopanti le dà un’occhiata./ Merli, torri, palazzo del Comune/ restaurato in stile gotico,/ con le sue case sotto la luna/ è più bella di una città./ Chiese antiche, campanili,/ strade spaziose e ben curate:/ che silenzio! Non si sentono che i grilli/ che fanno sempre cri cri cri… / Budrio di notte… Lungo il canale/ è uno spettacolo fra i più belli/ e che luna, e quante stel-le…/ e come canta il re degli uccelli!/ Budrio, alla luce della luna,/ è di una bellezza straordinaria…/ Nel mezzo come in una culla/ Filopanti le dà un’occhiata.).
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Tempo presente: cantano oggi il loro paese con note, ritmi, lingua e sensi diversi due budriesi che ne vivono lontani e l’identificano, l’una nella madre perduta, l’altro nella magica stagione dell’infanzia: Benedetta Davalli e Fausto Carpani.
Il mio paese
Intensi contatti e tumulti improvvisi
vivononel mio paese, piatto allo sguardo,
identico da sempre.
Attraversare la piazza infuocata
a sentirne addosso i bruciori
e voltarsi indietro
e trovare sempre lì la torre dell’orologio
con i rintocchi assordanti.
A mezzanotte i rintochi soltanto
sentono la frescura,
mentre le pietre rosse del Comune
ancora sono calde.
All’aurora di quel giorno
attraversai correndo il mio paese:
le pietre rosse del Comune
erano fredde
e tu sembravi respirare ancora.
Anche ora tu sei il mio paese.
(Benedetta Davalli)
Arcôrd (dal mî pajaiṡ)
–> La canzone si può ascoltare cliccando qui
Che nabbia stasîra int la fòsa,
l’é fradda e a la sént int äli òsa;
ai ò la stufîṡia int äl brâza
e in gåula am vén só la ganòsa.
Pian pian la vén fòra dal bûr
la sègma dal vèc’ lavadûr
con dnanz tótti äl fnèster dal ṡbdèl
e a sént anc l udåur dal canèl.
Am pèr quèṡi ed sénter ciamèr,
cäl dòn i én drî a fèr la bughè
e in mèż a una dstaiṡa ed linzû
i córren i sû ragazû.
A sént tótt i armûr dal marchè
e äl våuṡ d un antîg martedé:
a vadd una scuèdra ed tuṡétt
ch’fan cúcco stramèż ai banchétt.
A sént anc la piôla ed mî nôn,
a sént al martèl dal magnàn;
a sént anc un còro cantèr:
mî pèdr e i sû amîg dla corèl.
A vadd una côrda ṡdundlèr
atâc ad un vèc canpanéll,
a sént na canpèna sunèr:
l’ardûṡ i vciarlén a magnèr.
A sént al prufómm ch’fèvn i vénc
ch’Ferúccio cujêva drî al Égg’,
a l sént tótt cuntänt stufilèr
in st’mänter ch’l intrazza un panîr.
A sént al savåur di strichétt
ch’magnèvn al eṡîl da tuṡétt,
a vadd una sfîlza ed fangén
ch’i dôrmen invatta ai banchén.
A sént la siräṅna ciamèr:
ai brûṡa una stâla a Purnèr!
Piantànd tótt i sû lavurîr
i arîven ed cåursa i punpîr.
A päns a un mumänt ed teråur
int l’âcua trancuélla dal Mòr;
a sént anc un cìnno zighèr:
l à pòra e an sà brîṡa nudèr.
E intànt che la nabbia la câla
a n sént pió l martèl e la piôla,
a n sént Feruciàtt stufilèr
e inción lèva pió int al canèl.
La Fòsa l’é tótta un parcàgg’,
e an maṡnarà pió al Mulinàtt:
a tåurn a Bulåggna ch’l é tèrd,
mo a lâs qué una móccia d arcôrd.
(Testo e musica di Fausto Carpani – da: Fedora Servetti Donati, Budrio casa nostra,Budrio 1993)
Foto: Fedora e Fausto Carpani che le dedica Arcôrd dal mî pajaiṡ, Budrio, 1994
Ricordi del mio paese
Che nebbia stasera nella Fossa, è fredda e la sento nelle ossa, ho tanta stanchezza nelle braccia e in gola sento crescere un nodo. Pian piano vien fuori dal buio la sagoma del vecchio lavatoio davanti alle finestre dell’ospedale e sento ancora l’odore del canale. Mi par quasi sentir chiamare le donne che fanno il bucato e in mezzo alle lenzuola stese corrono i loro bambini. Sento tutti i rumori del mercato, le voci d’un antico martedì, e vedo una squadra di ragazzetti che giocano fra le bancarelle; e sento anche la pialla di mio nonno e sento il martello del battirame, e sento anche un coro cantare: mio padre e i suoi amici della Corale. E vedo una corda dondolare lungo un vecchio campanile, e sento una campana suonare che chiama i vecchietti a mangiare; e sento il profumo che facevano i vimini che Ferruccio raccoglieva lungo l’Idice, lo sento fischiettare tutto contento mentre intreccia un paniere; e sento il sapore degli “stricchetti” che mangiavamo all’asilo da piccoli, e vedo una fila di bambini che dormono con la testa sui banchini; e sento la sirena chiamare, brucia una stalla a Prunaro, lasciando tutti i loro mestieri arrivano di corsa i pompieri; e penso a un momento di terrore nell’acqua tranquilla del Moro, e sento anche un bambino piangere:ha paura e non sa nuotare…E mentre cala la nebbia non sento più il martello e la pialla, non sento Ferruccio fischiettare e nessuno lava più nel canale. La Fossa è tutta un parcheggio e non macinerà più il Mulinetto, è tardi, ritorno a Bologna ma lascio qui una parte del mio cuore.