La
vita/

“Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.”
(Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano)

“Mi ritrovo in queste parole; le desidererei sulla mia tomba”. Così Fedora scriveva nei suoi diari.

Fedora Donati nasce a Budrio il 6 aprile 1912, in una famiglia molto modesta: il padre Felice lavorava presso la Congregazione di Carità, prima come bracciante, poi come cantiniere; la madre Virginia era casalinga e dopo la nascita di Fedora fu a lungo malata.

Virginia e Felice avevano avuto già un’altra figlia, Maria, morta in tenera età: temendo che anche Fedora potesse ammalarsi, non la mandarono all’Asilo e lei ne sofferse molto. 

Finalmente, nel novembre del 1918, cominciò la scuola elementare e si aprì per lei, che parlava solo dialetto, un nuovo mondo. Lo studio diventò la sua prima passione. 

Per l’ottimo profitto il Comune la premiò con borse di studio che la sostennero per tutto il corso di studi. Accolta poi, sempre gratuitamente, nel privato Ginnasio Filopanti, superò a pieni voti l’esame di ammissione al Liceo classico Galvani di Bologna e, di nuovo grazie alle borse di studio comunali, potè proseguire gli studi, facoltà di Lettere classiche, laureandosi in Italiano col famoso scrittore Giovanni Papini, nel 1936. L’alto voto, 110 e lode, e la stima del professore le avrebbero permesso di rimanere all’università come assistente, ma le condizioni economiche della famiglia non lo permettevano: Fedora doveva trovare presto un lavoro retribuito. La gioia della laurea fu brevissima: il giorno dopo, la mamma Virginia morì. 

Ma la vita continuava: c’era il concorso a cattedre da preparare per iniziare finalmente ad insegnare. Il primo incarico fu all’Istituto magistrale di Imola; vinto il concorso, ebbe la cattedra di materie letterarie alla scuola superiore di Guastalla. 

Nel gennaio del 1938 si sposò con Enrico Servetti, arrivato a Budrio qualche anno prima come segretario comunale; lo seguì, l’anno dopo, in Libia, dove il marito aveva ottenuto un incarico amministrativo e Fedora aveva vinto un ulteriore concorso per una cattedra all’istituto tecnico di Bengasi. Nel 1941, dopo lo scoppio della guerra, furono rimpatriati e Fedora ebbe una cattedra nelle scuole medie di Siena fino al 1945, quando fece ritorno a Budrio. 

Ottenuta la cattedra alle scuole medie “San Domenico” di Bologna, vi rimarrà 17 anni. Insegnò in seguito alle medie di Budrio e alle “Manfredi” di Bologna: furono 37 anni di servizio nella scuola, vissuti con entusiasmo e dedizione. Dalla fine degli anni Cinquanta cominciò a dedicarsi anche alla ricerca storica sul territorio budriese, iniziando una collaborazione con le principali riviste storiche bolognesi. 

Nel 1963 uscì il suo primo saggio, “Budrio Casa nostra”, a cura del Comune di Budrio; rinunciando ai diritti d’autore, regalò questo libro, come in seguito tutti gli altri suoi lavori, al Comune, che l’aveva sostenuta negli studi. 

Socio corrispondente della Deputazione di Storia patria per le Province di Romagna, nel gennaio 1981 fu nominata anche Ispettore onorario per i Beni ambientali, architettonici, storici di Budrio, Castenaso, Minerbio e fece parte del “Comitato per Bologna storica e artistica”.

Nel 1992 il Rotary Club “Valle dell’Idice” le ha conferito la “Paul Harris”, la loro massima onorificenza, per meriti verso la propria comunità e nel 1995 le è stato assegnato, alla sua prima edizione, il premio “Città di Budrio”, a riconoscimento della sua cinquantennale attività di ricerca e di studio.

Il suono della falce grande che tagliava l’erba scandiva a giugno le ore sonnolenti pomeridiane dell’infanzia lontana: vedo mia madre, alta sul portone, con il lungo grembiule grigio e sotto il braccio il fagotto bianco della biancheria da rammendare all’ombra della casella.”

Dai Diari di Fedora, “Memorie amiche”.

Il metodo di lavoro

“Potrei fare un elenco sintetico di quali sono per me gli ingredienti necessari per la buona riuscita di ogni ricerca: 1. calda passione per la ricerca storica costantemente ravvivata dalla fiamma di una inesausta curiosità di conoscenza; 2. base culturale di seri studi storici, che ti permetta la lettura dei documenti archivistici, unita ad una sempre attenta informazione della storiografia e delle metodologie storiografiche attuali; 3. un rapporto intenso, vitale con i luoghi della tua ricerca, di cui devi conoscere a fondo la realtà ambientale, i centri urbani, campi e strade, case, chiese, monumenti, ville; agricoltura e prodotti della terra, industrie, vicende della popolazione partendo dai tempi più lontani e loro variazioni; opere degli uomini migliori senza mai indulgere a oleografie tradizionali e soprattutto non privilegiando il ceto dominante; 4. cura delle immagini: le illustrazioni sono da considerare e quindi essere scelte come documenti e come tali trattate e spiegate; debbono essere parte integrante del testo e non semplice abbellimento; 5. assolutamente indispensabile: senso critico vigile e intendimento scientifico; mai indulgere a intenti celebrativi, mai offrire come dato reale un’ipotesi, per quanto verisimile; 6. infine una scrittura semplice, in uno stile lontano da ogni astrattezza”

Fedora in una presentazione pubblica di Budrio casa nostra, II ed., 1977.

La Cà dal vàidar

I Donati abitavano in quella che era chiamata la Cà dal vàidar (Casa del vetro),  “perché in un capannone c’era il deposito di vetri di un negozio budriese”. Era una grande, vecchia casa rurale in fondo a via Capestrara, vicino all’Ospedale Donini – Zogolari, poco prima del canale Fossano, “fra un vasto orto e prati che si concludono a sud con un largo macero, gioia e timore della mia infanzia”- scriverà poi Fedora, ricordando l’avventura che l’aveva portata a caderci in quel macero.

Oggi la via è ridotta ad un piccolo tratto da via Bissolati a Villa Donini. Era una strada particolare, con rumori particolari: risuonava delle opere dei cordai:

“La stradina campestre, con alte siepi di ‘mirandoli’ fra l’orto della Mintina e quello dell’ospedale, andava dritta dalla fontana, al suo inizio, fino al ponticello sul Fossano e al lavatoio. Rievocava nel bel nome sonante una delle glorie budriesi: la canapa e la corda.

I capestrari, i cordai, artigiani espertissimi, arrivavano all’alba con le sporte piene di matasse di un colore caldo, lattiginoso, piantavano i loro cavalletti a metà della strada e alla fine, passato il cancelletto di legno dell’orto della Mintina, ponevano il loro dipanatoio, la masóla e, tesa la fibra, cominciavano a torcerla: il suono della masóla sembrava un gracidare continuo di rane e tutta la campagna intorno ne risuonava.

Li vedo come fotografati nella memoria della mia infanzia: bagnavano ogni tanto la piccola corda, poi la univano ad un’altra e ad un’altra ancora, formando dei grossi canapi, delle gomene perfette. Prendevano di tanto in tanto un secchio d’acqua alla fontana. Alcune volte, quando arrivavano all’alba, trovavano il posto già occupato da un’altra corda, ma tesa alta, sollevata sulle forcelle: le lavandaie avevano un bucato da stendere, gli enormi bucati di un tempo, e la via sul lato sinistro, a sud, appariva pavesata di bianco. I cordai allora si spostavano sul lato sinistro. Quando, a mezzogiorno, giungevano i rintocchi della campana grande del campanile di San Lorenzo, seduti sul muretto del canale, all’ombra dei platani, toglievano dalle sporte il pane, il formaggio, la salciccia, la bottiglia del vino e mangiavano. Le ore pomeridiane erano cullate nel mio riposo forzato (avrei voluto stare sempre alzata) dal suono della masóla, che aveva ripreso a girare. Verso il tramonto mio padre tornava dal lavoro, prendeva la carretta, vi metteva sopra una damigianina e andava alla fontana a prendere l’acqua: il nostro pozzo non aveva acqua potabile. Potevo uscire con lui e divertirmi ad ascoltare le donne, che aspettavano il loro turno per riempire il secchio e raccontavano quello che era capitato in paese: chi era nato, chi era morto, chi si era sposato e gli amori – ‘parlarsi’ si diceva dei fidanzati. La fontana diventava un luogo di riunione: i pettegolezzi passavano tutti di lì e dal lavatoio sul Fossano”.

Così nei suoi “Diari” ricorda Fedora, che ne traccerà poi la storia documentata  in: Budrio – Le strade, i luoghi – Toponomastica storica, 1988.

(Lorenza Servetti, “La mia patria sono stati i libri”. Ritratto di mia madre Fedora Servetti Donati, Costa Ed., 2020)

Foto:
. Via Capestrara agli inizi del Novecento.
. Un mestiere scomparso: i Capestrari (cordai) al lavoro con il mulinello (la masóla).


Il cappotto di Franz

Tra il 1916 e il 1918 furono smistati a Budrio, come in altre zone, molti prigionieri di guerra; affidati alla Congregazione di Carità, vennero impiegati in lavori agricoli. Uno di loro, un certo Franz, fu messo a lavorare con il  mio nonno materno, Felice Donati, dipendente della Congregazione di Carità, come bracciante nei suoi fondi e aiuto cantiniere all’ospedale.

Il nonno lo chiamava spesso in casa sua, a dividere quel po’ che c’era da mangiare e a stare in famiglia, a giocare con mia madre Fedora, che allora aveva cinque anni, la stessa età della figlia di Franz, di cui egli mostrava orgoglioso la fotografia. Felice parlava solo dialetto, ma si intendevano: avevano le stesse mani da contadini, lo stesso modo di lavorare e forse somiglianze anche nella povertà della casa. Quando finì la guerra e Franz se ne andò, volle lasciare al nonno il suo cappotto militare di lana pesante, in segno di riconoscenza per il calore che aveva ricevuto. E quel cappotto, disfatto e tinto, servì per un’ampia gonna della nonna e per un cappotto per mia madre, che durò per tutta la scuola elementare.

Così mia madre lo ricorda, molti anni dopo, nei suoi “Diari”: Finiva la lunga guerra 1915-1918. Con una grigio-verde mantella militare, poi tinta di rosso, la sarta di casa, la Quartilla, mi aveva fatto un largo cappotto, lungo fino alle caviglie, con cui ho cominciato la scuola elementare, e che ho portato fino alla classe quinta: l’abbiamo sempre chiamato “il cappotto di Franz”.

Questa storia, più volte narrata dal nonno a mia madre e da lei tramandatami, è stato il primo racconto che ho avuto sulla guerra: una storia di solidarietà e di amicizia.

(Testimonianza di Lorenza Servetti)