I campi, le strade,
le acque, le pietre/

La storia di Budrio e del suo territorio non è narrata solo dai documenti che ho ritrovato negli archivi, ma la possiamo leggere anche nella sua pianura, nella struttura dei campi, nelle strade, nelle cavedagne, negli scoli che spesso ripetono i cardini e i decumani della centuriazione romana; nelle coltivazioni e nel loro mutare attraverso i secoli ed anche nelle sue case e nei nomi delle sue vie: ogni pietra e ogni strada è un documento.

Fedora Servetti Donati, Budrio nelle pietre, in “Carrobbio”1975.

Lo studio del territorio budriese e delle sue trasformazioni nel tempo attraversa tutta l’opera di Fedora, fin dai suoi primi lavori, accompagnato dalla storia delle donne e degli uomini che questo territorio hanno plasmato con il loro lavoro.

È stata una lunga indagine che partiva dal documento d’archivio, dalle mappe e dai documenti grafici: le piante di Budrio e delle comunità confinanti, le mappe di proprietà, fotografate, poi spesso ricopiate a mano, colorate nelle parti da studiare, con l’aggiunta di indicazioni desunte dall’osservazione diretta dei luoghi. Convinta che solo il confronto col presente può dare risposte sul mutamento nei secoli, ha sempre considerato la ricerca sul campo l’altro aspetto fondamentale del suo metodo: “leggere” la storia del territorio esplorandolo in bicicletta, osservando la conformazione dei campi, le coltivazioni, seguendo il percorso dei torrenti, delle cavedagne, delle strade, per confrontare la realtà presente con quella raffigurata nei documenti d’archivio. In Budrio- le strade e i luoghi. Toponomastica storica, ricerca su più di 200 strade che attraversano il nostro territorio, i “segni” seguiti da Fedora sono stati i nomi delle strade e dei luoghi, i toponimi. Così dal nome delle strade apprendiamo che un tempo lontano lì c’erano in gran quantità querce (via Roversella), gelsi (via del Moro), siepi (via dello Spino Bianco di Vedrana), boschi (via Bosco di Veduro), pioppi (via Albareda, dal latino medievale albarua, tipo di pioppo); c’erano acquitrini, habitat per le rane (via Cantarana); possiamo conoscere la fauna comune nel passato, come le poiane, uccelli rapaci un tempo diffusissimi nelle nostre campagne (via Cantapoiana), i lucci (via del Luzzo), le rondini (via Rondanina), le lumache (via Lumaca e via Lumachina): nomi che rivelano uno stretto rapporto fra l’uomo e l’ambiente naturale. Ma anche trovare l’origine della nostra storia: via Boscosa, quel che rimane di un grande bosco con valle donato ai Budriesi per bonificarlo; o nomi di origine più complessa, come la via Alta del Buriolo, che ci parla di un paesaggio antico: avvallamenti, grandi fosse in epoca medievale chiamati burioli, in cui si fermava l’acqua tracimata dagli scoli e che venivano circondati con un argine (in dialetto “un’elta”, da cui, italianizzato, “alta”) per proteggere le colture. 

La storia di Budrio non inizia come storia di un villaggio: inizia come storia di un territorio, in cui si avverte immediatamente una forte impronta dell’uomo, ma dove non c’è ancora un centro, che comparirà più tardi – come Fedora Servetti pone in luce con insistenza.

[…]

Solo nel decimo secolo dopo Cristo sorge un primo embrione di centro, che ha un nome significativo: Butrium, da bothros, cioè “luogo con pantani vicini” , che sono l’eredità della crisi ambientale dopo la caduta dell’Impero romano. Budrio è un minuscolo villaggio sorto intorno all’odierna via Bissolati – cardine della centuriazione romana rimasto inalterato. In questa suggestiva rievocazione del graduale emergere del centro di Budrio, c’è da parte dell’autrice di questa esemplare storia locale una sottolineatura del fatto che la posizione di Budrio ha avuto a lungo caratteristiche quasi di bilancia fra due importanti poli territoriali e politici: Bologna e Ravenna.

Lucio Gambi, Un’esemplare storia locale, Presentazione di Budrio Casa Nostra ( 28 ottobre 1993), Budrio, 1994.

Altri toponimi ricordano la suddivisione dei campi romana (centuriazione), come Cento, o le antiche abitazioni di canne e strame (via dei Casoni, via Casona a Dugliolo), o ancora particolarità della zona come via del Pozzo a Maddalena di Cazzano.

Oppure indicano mestieri scomparsi, come via dei Bachieri, a Vedrana, che ricorda la presenza degli allevatori di bachi da seta, o via Capestrara, una via urbana di cui oggi è rimasto un piccolo tratto presso Villa Donini. Lì c’era una Capestraria, base di lavoro e magazzino dei capestrari (cordai), artigiani che fabbricavano con la fibra della canapa, fino agli anni Venti del ‘900, corde rinomatissime, esportate anche in Inghilterra. Estese erano le coltivazioni di canapa e tanti nelle campagne i maceri, in cui la pianta veniva messa a macerare, poi asciugata al sole e lavorata. 

Sempre di un mestiere ci parla la via Sarti Longhi (Maddalena di Cazzano), abitata fino agli ultimi decenni dell’800 dai membri di una numerosissima famiglia di sarti, i Monari, soprannominati per l’alta statura di un progenitore “lunghi”. L’aspetto curioso è che essi, col sorgere di nuovi nuclei famigliari, si erano costruiti una vera e propria borgata: una ventina di casette, con una corte interna, un pozzo, un forno e anche l’osteria, segnata nelle carte topografiche ancora nell’Ottocento come “Sarti Lunghi”, da cui il nome della strada. Poi, già sul finire di quel secolo, il nome rimase a una strada adiacente, mentre quella via fu chiamata via Olmi-Club. “Olmi” perchè era fiancheggiata da filari di olmo, le cui foglie, alternate ai fieni freschi, servivano per nutrire il bestiame. “Club” per via delle allegre riunioni che questa grande famiglia (fino a un’ottantina di persone), era solita fare nella corte. I più esercitavano il mestiere di sarti, ma c’erano anche barbieri, calzolai, falegnami, braccianti, muratori, una maestra, un portalettere. Poi, poco alla volta, per esigenze di lavoro e di studio, dai primi del Novecento cominciò l’esodo dei Monari.

Altri toponimi indicano il luogo di destinazione, come la via Zenzalino Nord, che fino a tutto il Cinquecento fu un’importante strada di collegamento tra Bologna e la località di Cinzalino (da zinzale, zanzare in latino medievale) nel Molinellese.

Lo studio dei toponimi ha permesso a Fedora di ritrovare anche luoghi scomparsi, di cui è rimasto solo il nome, come l’entusiasmante scoperta del Castellazzo (termine che indica sempre un castello in rovina), in via Viazza, castello di cui non c’era traccia e che ha potuto localizzare proprio intrecciando i documenti archivistici con le sue esplorazioni in bicicletta nella campagna budriese.

Una fortunata scoperta: il ritrovamento del Castellazzo

Un giorno dell’agosto 1986, feci una delle mie passeggiate esplorative in bicicletta nella campagna budriese, lungo la Viazza nella località documentata dall’XI secolo col nome di Migarano, per rivedere il gruppo marmoreo della SS.Trinità, posto su una parete della casa colonica del podere “Castellazzo”, unico resto del seicentesco oratorio, distrutto dai bombardamenti del 1945.

Nei campi dietro la casa, appena arati, una larga superficie spiccava con un colore più chiaro per una gran quantità di frammenti di tegole e mattoni che vi affioravano. Il proprietario mi disse che anche i suoi nonni e bisnonni avevano raccolto carrettate di pietrame: le probabili macerie di una grande costruzione. Io pensai che quei resti spiegavano il toponimo Castellazzo, indicante un castello ridotto a rudere. E in effetti nella zona è documentato nei secoli XI-XIII, un Castrum Migaranum, un “Castello di Mingarano”, il cui nome ora è mantenuto da una strada (via Migarano) e da una località (la Mingarana).

Ma il castello dov’era? Quel pietrame affiorante avrebbe potuto rappresentarne l’ultimo resto? Questa mia ipotesi fu confermata dal ritrovamento nell’Archivio di Stato di Bologna di una pianta del 1625, dove si vede localizzata proprio qui l’antica forma di un castello. Conclusione felice di una lunga ricerca!

Fedora, Diari

La storia si fa con i documenti scritti, certamente. Quando esistono. Ma la si può fare, la si deve fare senza documenti scritti se non ce ne sono. Quindi con delle parole. Dei segni. Dei paesaggi e delle tegole. Con le forme del campo e delle erbacce. Con le eclissi di luna e gli attacchi dei cavalli da tiro. Con le perizie su pietre fatte dai geologi e con le analisi di metalli fatte dai chimici. Insomma, con tutto ciò che, appartenendo all’uomo, dipende dall’uomo, serve all’uomo, esprime l’uomo, dimostra la presenza, l’attività, i gusti, e i modi di essere dell’uomo.

Lucien Febvre, Vers une autre histoire, citato in Jacques Le Goff, Documento/Monumento, Enciclopedia Einaudi, 1978.

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